Un viaggio nel deserto: il Sahara Occidentale

Il Deserto della Solitudine (pt. II)

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In assenza di una risposta legale chiara, la politica riempie il vuoto.

Andrew G. Lewis

Nel primo articolo di questa serie sul Sahara Occidentale vedemmo la Marcia Verde, incitata da Hassan II, passare il Rubicone ed addentrarsi nel Sahara Español, ultimo atto della strategia tesa da Rabat a tracciare i nuovi confini del “Grande Marocco” e della regione in generale. Alla marcia seguì la firma, il 14 novembre del 1975 -pochi giorni prima della morte di Franco-, di un Accordo Tripartito tra Spagna, Marocco e Mauritania. Il trattato istituì un’amministrazione temporanea fino alla ritirata definitiva delle truppe spagnole fissata per il 28 febbraio 1976.

Fu così che la Spagna perse la sua ultima colonia e il popolo sahrawi vide svanire ogni possibilità di ottenere la tanto ambita libertà, ma, a differenza della ritirata britannica da Hong Kong, non ci fu nessuna marcia gloriosa al suono di Auld Lang Syne, nessuna cornamusa ad accompagnare l’addio, nessuna cerimonia; solo lacrime e vergogna. Come Arturo Pérez-Reverte, allora corrispondente di guerra di stanza nel Sahara Occidentale, scrisse in un articolo del 2015, fu ordinato ai soldati spagnoli di disarmare le leali truppe indigene che avevano combattuto così valorosamente accanto a loro per molti anni. Provando amarezza, vergogna e disperazione, molti ufficiali -quelli che osarono- aiutarono i loro uomini a scappare e ad unirse al Fronte Polisario, movimento di liberazione nazionale nato nel 1973 con lo scopo di ottenere l’autodeterminazione.

Ciò che seguì fu una guerriglia tra il Polisario, che nel frattempo aveva proclamato la Repubblica Araba Democratica dei Sahrawi (RASD), e il Marocco che durò, intermittentemente, per quindici anni e che provocò più di 150.000 rifugiati, secondo una stima ufficiale dell’UNICEF del 2010. Fonti non confermate sostengono che Rabat, appoggiata dalla Francia e dagli Stati Uniti -d’altronde ci ritroviamo nell’ambito della Guerra Fredda e il Fronte Polisario non solo apparteneva alla sfera socialista, ma era anche -e lo è ancora- sostenuto dall’allora “sovietica” Algeria-, abbia fatto uso di napalm e fosforo bianco per bombardare accampamenti di civili sahrawi.

Mentre la Mauritania, stremata dalla guerra di logoramento, firmò la pace con il Fronte Polisario nel 1979, il Marocco continuò rivendicando la sua sovranità sul Sahara Occidentale, basandosi anche sulla firma dell’Accordo Tripartito. Tale rivendicazione però, è da molti analisti e studiosi considerata debole, in quanto non solo il Marocco non controlla la totalità del territorio del Sahara Occidentale, ma anche perché, come fa notare Andrew G. Lewis in “A disappearing right of self-determination: the ongoing impasse in Western Sahara and its consequences“, il trattato di Madrid, secondo quanto affermato dalla Risoluzione 1514 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, “non risultò nella decolonizzazione del Sahara Occidentale sulla base di un consenso libero e informato della popolazione sahrawi”. Sopratutto, la risoluzione s’incentra nel riaffermare “l’inalienabile diritto all’auto-determinazione […] di tutti i popoli del Sahara originari del Territorio”.

Aleggia persino un’ombra di dubbio sulla validità degli accordi di Madrid, in quanto essi potrebbero rappresentare il prodotto della minaccia o uso coercitivo della forza (la Marcia Verde) proibito dall’articolo 52 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati. L’ONU tuttavia non si è pronunciata esplicitamente al riguardo, limitandosi a mantenere che il territorio debba essere decolonizzato e che il Marocco non ne è la potenza amministratrice. Il Consiglio di Sicurezza, in particolar modo, pur propugnando inizialmente l’autodeterminazione, “con l’approvazione della Risoluzione 1429 nell’anno 2002 prese le distanze da tale principio passando a preferire una soluzione politica” (-Lewis).

Questa nuova presa di posizione pragmatica -un evidente e, in molti sensi, logico esempio di realpolitik– non fu altro che la naturale conseguenza di anni di negoziati falliti tra il Marocco, il Fronte Polisario e le Nazioni Unite per l’organizzazione di un referendum sull’autodeterminazione. Il problema era -ed è ancora oggi- rappresentato dall’identificazione degli aventi diritto al voto, chi si sarebbe dovuto esprimere sull’autodeterminazione del Sahara, dal criterio da applicare: etnico, di nazionalità, di residenza o un ibrido? Chi aveva diritto al voto? Solo i membri del popolo sahrawi, indipendentemente dalla loro localizzazione, se nel territorio o nei campi profughi di Tindouf (Algeria)? I cittadini marocchini e sahrawi? Solo i residenti nel Sahara Occidentale a prescindere dalla loro appartenenza etnica? Secondo Lewis, “nel corso del tempo il Marocco si è consolidato con successo nella maggior parte del territorio, applicando le proprie leggi, insediando la propria popolazione e sfruttando le risorse naturali del territorio”.

Nel 1991 il Consiglio di Sicurezza stabilì MINURSO, una missione di pace con l’obiettivo di monitorare il cessate il fuoco raggiunto quello stesso anno e, sopratutto, di organizzare e assicurare un referendum libero ed equo e identificare e registrare i votanti. Come vedremo nel prossimo articolo, nonostante i diversi piani proposti nel corso degli anni (Piano di Regolamento, Baker I e II), l’inazione delle Nazioni Unite e il fallimento di MINURSO hanno dato luogo a una situazione di stallo dalla quale ha tratto beneficio solo il Marocco per avanzare i propri piani e assicurarsi l’appoggio dei suoi alleati. Il tutto davanti all’impassibilità dell’ONU e della Comunità Internazionale.

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