E non ci indurre in tentazione, Parte II

La preghiera del Padre Nostro è riportata dai Vangeli di Matteo e Luca (Mt. 6,9-13 e Lc 11,2-4). La versione di Luca è leggermente ridotta, ma in entrambe è presente nella stessa forma il testo greco preso in esame, tanto che sussistono pochi dubbi sul fatto che essa fosse così contenuta nella cosiddetta fonte Q, una raccolta di detti di Gesù da cui questi due Vangeli avrebbero attinto nella stesura del testo.

Riportiamo e traslitteriamo la frase dibattuta, riguardo alla quale, premettiamo, non sembrano sussistere particolari problemi filologici: καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν (kai mē eisenenkēs hēmas eis peirasmon). La discussione ruota intorno alla traduzione dei due termini in grassetto eisenenkēs e peirasmon (rispettivamente seconda persona singolare del congiuntivo esortativo aoristo del verbo eispherō e accusativo singolare del sostantivo peirasmos).

kaieisenenkēshēmaseispeirasmon
enon?noiverso?
(soggetto sottinteso è Dio, a cui la preghiera si rivolge in seconda persona)

Nonostante la CEI abbia modificato proprio la traduzione di eispherō (da ‘indurre’ ad ‘abbandonare’), tale lemma è quello che sembra presentare meno problemi. Derivato del verbo pherō ‘portare’ con aggiunta del prefisso eis– ‘verso’, esso ha come significato convenzionale, riscontrabile nel resto del Nuovo Testamento, ‘portare verso’, ‘condurre’. Il vocabolo che, invece, presenta maggiori problemi è sicuramente peirasmos, fino ad ora reso in italiano con ‘tentazione’. Essendo un derivato del verbo peirazō (‘provare’, ‘sperimentare’) dovrebbe aver avuto, all’epoca della compilazione dei Vangeli, come significato convenzionale ‘prova’ più che ‘tentazione’ inteso attualmente in italiano come stato di attrazione o invito al male.

Il termine ‘tentazione’, a sua volta, viene dalla traduzione latina di peirasmos, ovvero temptatio (‘prova’, ‘tentativo’), derivato del verbo tempto (‘toccare’, ‘tastare’, cfr. tentoni, e per somiglianza dei sensi ‘sondare’, ‘mettere alla prova’). Si può affermare con una certa sicurezza che nella lingua italiana il significato di tentazione ha decisamente perso l’accezione di ‘prova’ contenuta nel termine latino, limitandosi alla definizione che abbiamo previamente riportato. Eppure, come Tommaso d’Aquino afferma nel sesto articulus del suo Commento al Padre Nostro, questa situazione, espressa dal termine peirasmos, sarebbe proprio un momento in cui l’uomo è messo alla prova da Dio affinché conosca la sua virtù. Non, quindi, una situazione in cui Dio si diverte sadicamente ad assistere alla caduta dell’uomo nel peccato, ma anzi un frangente in cui all’uomo, sostenuto dalla Grazia, è data la possibilità di sviluppare una fede matura e capire i propri limiti. A tal proposito troviamo in 1 Corinzi 10,13: “Nessun peirasmos, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con il peirasmō, vi darà anche il modo di uscirne per poterlo sostenere.” La richiesta di non metterci alla prova sarebbe dunque un riconoscimento delle nostre debolezze umane e della fragilità della nostra natura e una richiesta di non testare la nostra fede così come ha fatto con Abramo e Giobbe (chiedendo a uno di sacrificare il figlio Isacco e privando l’altro di ogni cosa), poiché, sempre in riferimento alla prova, “lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Matteo 26,41).

Nonostante in altri passi il peirasmos abbia un significato molto più vicino all’accezione contemporanea di tentazione, in essi è comunque legato all’operato del Male e non all’azione di Dio come nella preghiera del Padre Nostro. Se dunque lo scopo originario della nuova traduzione della CEI era fugare ogni fraintendimento riguardo al fatto che Dio agisse per condurre l’uomo alla perdizione, una traduzione altrettanto valida, mantenendo un’auspicabile fedeltà all’originale, sarebbe potuta essere “e non metterci alla prova”, adattando il verbo eispherō ad un’espressione più felice di “e non ci indurre/condurre alla prova”. Tale risoluzione è stata, peraltro, proposta da padre Pietro Bovati, biblista e segretario della Pontificia Commissione Biblica, nell’articolo “Non metterci alla prova” uscito su La Civiltà Cattolica nel febbraio del 2018.

Considerando tutto ciò e con la consapevolezza di non essere biblisti di professione, la nuova versione “e non ci abbandonare alla tentazione” ci pare, per lo meno, poco fedele all’originale e probabilmente una soluzione poco felice a un problema che riconosciamo, comunque, non essere affatto banale. La discussione al riguardo, tuttavia, è tutt’altro che chiusa, essendosi palesate molte perplessità da più parti al riguardo, e proprio per questo auspichiamo una revisione futura della traduzione di questo passo che nel dare una veste più moderna alla preghiera non trascuri il senso originario dei Vangeli.

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