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Diversamente da stati come l’Italia, la Spagna o gli Stati Uniti, i quali sono accomunati dal fatto di avere una costituzione scritta alla base dei quali sono basati i rispettivi sistemi politici e legali, istituzioni, stati di diritto e governi, il Regno Unito non ostenta un ferreo documento scritto. Nonostante parte della sua Costituzione sia, in effetti, scritta, il diritto costituzionale britannico è primariamente reperibile nelle principali norme giuridiche così riconosciute dal Parlamento e dalle corti di giustizia.
In questo contesto, Westminster è dotato della cosiddetta sovranitĂ parlamentare (parliamentary sovereignty), la quale sancisce che la legislazione emanata da entrambe le camere e conseguentemente applicata dalla Corona rappresenta la pietra angolare del sistema legale inglese nella sua globalitĂ . La primary legislation, l’insieme delle norme promulgate direttamente dal Parlamento e non delegate a organismi secondari, occupa la cuspide nell’ordinamento legale britannico. Non esistendo alcun atto giuridico superiore —dalla Brexit non è piĂą in vigore la legislazione europea—, la legislazione primaria può, di conseguenza, cambiare e riformare la law of the land, la totalitĂ delle leggi in vigore nel Regno Unito (lex terrae). Risulta quindi evidente la flessibilitĂ che contraddistingue l’ordine costituzionale britannico dai suoi omologhi europei.
Quest’ultima potrebbe essere la ragione per la quale, a differenza della Spagna, dallo Union Act del 1707 tra Inghilterra e Scozia —il trattato internazionale che costituì il Regno Unito—, non è mai mancata la convinzione che la seconda avesse il diritto di decidere sul proprio futuro. Persino Margaret Thatcher, colei che passò alla storia come the Iron Lady e che non esitò a dissolvere gli scioperi dei minatori del 1984-1985 nel piĂą decisivo dei modi —per usare un eufemismo—, difendeva “l’indiscusso diritto all’autodeterminazione nazionale” della nazione scozzese. D’altronde, il Regno Unito è generalmente considerato una Nazione di nazioni (Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord).
Tale idea serve da fondamento per il processo di devoluzione del potere che ebbe luogo nella seconda metĂ del XX secolo: dopo un primo tentativo fallito di trasferire alcuni poteri alla Scozia nel 1979, il governo labour di Tony Blair organizzò un secondo referendum nel 1997, il quale risultò nel passaggio dello Scotland Act. Quest’ultimo garantì un maggior livello di autogoverno e ristabilì il Parlamento e il Governo Scozzese, così come le sue controparti gallesi e nordirlandesi.
Pur essendo un organo indipendente, il Parlamento scozzese non solo è limitato nelle sue funzioni, e di conseguenza impedito dal legiferare riguardo alle cosiddette materie riservate (reserved matters), come l’indipendenza o l’organizzazione di un referendum per l’indipendenza, ma è anche un’istituzione devoluta, quindi soggetta ad abolizione da parte di Westminster —sebbene questo sia uno scenario altamente improbabile—. Indi per cui, per la convocazione di un referendum è fondamentale l’approvazione del Parlamento britannico da una parte, e la volontĂ politica dei suoi membri e delle loro formazioni. Il referendum sull’indipendenza della Scozia del 2014 fu frutto di tale disponibilitĂ : a seguito della crescita del movimento indipendentista in Scozia e dell’elezione del Partito Nazionalista Scozzese (SNP) al governo di Edimburgo, quest’ultimo e il numero 10 di Downing Street iniziarono a negoziare e, infine, accordarono emendare lo Scotland Act in modo tale che Holyrood potesse, una tantum, legislare e convocare un referendum non oltre il 31 dicembre 2014.
In definitiva, nonostante il popolo scozzese possa effettivamente decidere riguardo al suo futuro in base al diritto all’autodeterminazione —come dimostrato dall’ampia approvazione riscontrata e dalla conseguente volontĂ politica per negoziare—, le istituzioni scozzesi, essendo il prodotto di un processo di devoluzione, non possono esercitare tale diritto in modo autonomo ed unilaterale.