I social e la carnevalizzazione permanente della società

«La società di massa non vuole cultura, ma svago.»

Hannah Arendt

Ciò che permette a Michail Bachtin, critico letterario russo del ventesimo secolo, di affermare nel quarto capitolo di Poetica e Stilistica che Dostoevskij, componendo i suoi capolavori, si sia innestato nella tradizione di genere della satira menippea è, assieme ad alcune strutture e topoi ricorrenti, l’atteggiamento carnevalesco di cui le sue opere sono impregnate. Questa carnevalizzazione, che non è altro che il trasponimento dal mondo reale a quello letterario dell’attitudine che anima il carnevale, nella letteratura, sempre secondo Bachtin, si manifesta attraverso l’uso di un linguaggio tutto proprio, composto da profanazioni, mondanizzazioni, oscenità, ma soprattutto incoronazioni e scoronazioni, che hanno il compito di rappresentare morte e rinnovamento.

Il carnevale, da almeno tre millenni e fino al secolo scorso, è sempre stato rigorosamente inserito in una cornice temporale (i giorni che precedevano la quaresima) e spaziale (le strade e le piazze) ben definita e soprattutto limitata, e se noi oggi non celebriamo più questo rito in modo sentito è perché sono venute meno le catene che davano un senso alla celebrazione del carnevale: con la democrazia è venuto meno il momento del “tutto è concesso” perché la vita stessa in democrazia, o forse a questo punto sarebbe meglio chiamarla oclocrazia con termine polibiano, è diventata un “tutto è concesso”.

Fino al secolo scorso, il secolo dei totalitarismi per eccellenza (che aveva alle spalle ere di assolutismo), non era ovviamente così e le libertà di cui il popolo poteva godere non erano ancora molte, capiamo quindi perchè il carnevale veniva considerato un evento eccezionale che fungeva da valvola di sfogo e permetteva, seppur per un periodo limitato, di assaporare una libertà e un potere praticamente illimitati. Infatti, il mondo carnevalesco è un mondo in cui tutto è al contrario, e le leggi e i divieti che regolano la vita ordinaria sono aboliti, continua Bachtin. Così crolla l’ordinamento gerarchico e le costruzioni di terrore, devozione, pietà ed etichetta a esso collegate perdono valore, creando un nuovo rapporto fra gli uomini, libero da queste condizioni che servono a mantenere la distanza fra i membri delle varie caste. In questa anomia, anche la distanza fra gli opposti si riduce creando ossimoriche combinazioni di sacro e profano, sublime e infimo, saggio e stolto eccetera. Il carnevale richiede, senza alcuna affettazione, semplicemente di essere vissuto stando alle sue leggi.

Tutte queste libertà, però, all’uomo del terzo millennio, l’era dei social e delle democrazie, non dicono più tanto proprio perché le democrazie e i social hanno permesso che accadessero quotidianamente e ovunque quei fenomeni tipici del carnevale, che una volta erano relegati a un dato spazio e a un dato periodo di tempo. La bacheca dei social è la nuova agorà, in cui è possibile sia lo scambio di idee sia la battaglia delle arance, il social stesso è la maschera che favorisce l’inibizione dietro a cui, anche anonimamente, ma non per forza, è possibile nascondersi e trovare il coraggio di insultare e umiliare, profanare e scoronare senza pensare alle conseguenze, un po’ per la maschera un po’ perché nella realtà virtuale tutto è concesso e soprattutto virtualmente possibile. In questo modo però il carnevale, necessario alla sanità mentale di una società (già Seneca ci diceva che «semel in anno licet insanire»), esce dal suo periodo limitato e perde il carattere annuale: il problema giunge quando il semel viene sostituito dal cotidie, quotidianamente. I social hanno permesso la celebrazione quotidiana del carnevale, un fenomeno che però non è nato per essere celebrato quotidianamente. «Il carnevale è uno spettacolo senza ribalta e senza divisione in esecutori e spettatori», dice Bachtin, e tutti sono liberi di partecipare e prendere parte all’azione. Ed è così che, sul palco virtuale, tutti sono attori, artisti, ma soprattutto giullari e pagliacci. Il problema del social è che è permeato proprio da questo atteggiamento carnevalesco ormai e da ciò non può uscirne niente di buono. Stiamo parlando di un mezzo, quindi non dobbiamo giudicarlo a priori ma dobbiamo sempre guardare a come viene utilizzato, il problema si annida però nella struttura e nell’impostazione del social stesso. I quindici secondi delle storie e i duemiladuecento caratteri dei post ci fanno capire che il social è lo spazio dell’inconsistenza, che non c’è abbastanza tempo e spazio per fare un discorso completo, per condividere appieno un proprio pensiero senza dover rientrare in un lotto limitato e menomare il ragionamento. Ciò che è pesante è tagliato fuori dal social. Ciò che è serio non ottiene la stessa visibilità di ciò che è divertente, e spesso anche stupido. Perché il social alla fine è questo, lo spazio del divertimento.

Ai più creativi anni fa, agli albori di questa nuova era tecnologica e prima di tutta questa deriva, il social deve essere apparso come l’utopia finalmente raggiunta, era il mezzo ideale per condividere in modo autentico bellezza, arte e saggezza, ma qualcosa con il tempo è andato storto, perché, come una sorta di Re Mida, ma al contrario, ogni cosa postata ha iniziato a deformarsi e banalizzarsi, a perdere valore, sempre per poter rientrare nel canone di leggerezza e intrattenimento che permette di ottenere visibilità.

Con questi canoni a cui adattarsi vediamo che il social non è lo strumento principale della democrazia e della libertà, del diritto di esprimersi e di pubblicare, ma è lo strumento principale del totalitarismo capitalista. Pur essendo gratis (e dieci anni fa non sembrava neanche vero), sappiamo da anni che paghiamo con i nostri dati personali. In secondo luogo, vediamo che, proprio come nei totalitarismi, viene imposto un canone (quello della cultura pop, della leggerezza, del disimpegno) e chi non rientra in questo viene escluso. Il social è lo strumento per eccellenza della cultura di massa al cui vertice dell’industria culturale, seppur in modo inconscio, ci sono i fruitori stessi (ricollegandoci al discorso dello “spettacolo senza ribalta e senza divisione in esecutori e spettatori”). Questo ai più ingenui fa respirare proprio aria di libertà assoluta, dell’utopia raggiunta in terra (o meglio nello schermo), ma questi non si rendono conto di quanto poco di tutto ciò ci sia effettivamente nei social.

Il canone si incarna nella stupidità più che mai quando, specie ai giovani, ovviamente più fragili, viene fornito l’esempio di altre persone che, umiliandosi, facendo semplicemente video ridicoli e privi di contenuti per intrattenere altre persone, che non sanno come investire il proprio tempo in modo più fruttuoso (non stiamo parlando di una persona che in pausa pranzo scorre la bacheca per staccare ma delle nuove generazioni che davanti a questi contenuti ci passano ore intere), guadagnano soldi e status sociale. Perché il social permette di guadagnare queste due cose, su cui la nostra società ormai si basa.

Il punto è che la maggior parte delle persone, prive di particolari talenti o addirittura di interessi, pur di riuscire a guadagnare si improvvisa cantante, ballerina, (ma anche esperta di scienza e politica) eccetera (praticando queste arti senza rispetto, come se si imparasse a ballare o a cantare dall’oggi al domani davanti a un telefono) nella speranza di fare il botto.

A ogni modo, la gente è finalmente in grado di esprimersi senza neanche dover uscire di casa, segnando un grandissimo traguardo per la democrazia, se non fosse che questa espressione, come nel fenomeno TikTok e Reels, non è autentica ma consiste nell’usare forme già popolari e per niente autentiche e originali, nel muovere le labbra su parole già dette da altri e non proprie. È questa la vera espressione? Tutte le bacheche di Instagram sono ormai così, piene di video le cui colonne sonore sono sempre le solite dieci canzoni, usate e riusate. E così vediamo queste performance che durano solo quindici secondi (i “15 minuti di fama” di Warhol sono diventati addirittura 15 secondi) e al di fuori di questi 15 secondi spesso non c’è niente perché nei video non vengono mostrati talenti veri, ma il minimo indispensabile per tirare insieme un video di brevissima durata.

C’è da chiedersi quanto tutto questo faccia bene alla salute della democrazia. Quanto intasare la bacheca, l’agorà, anche di cose stupide, di opinioni infondate, di spazzatura sia sano per la democrazia. Perché, ora come ora, sembra che la sua essenza risieda nel parlare a vanvera e sprecare appositamente queste occasioni di espressione autentica sia ciò che la tiene in vita (“siamo in democrazia, posso dire quello che voglio”).

Bisogna chiedersi se sia lecito fare un passo indietro e limitare questa apparente libertà illimitata facendo una sorta di manovra di emergenza per rianimarla, bisogna chiedersi se sia lecito limitare il diritto di espressione censurando i post che nuocciono alla democrazia stessa, da una parte facendo verificare ciò che viene pubblicato, dall’altra impegnandoci noi a condividere contenuti più ragionati.

Il social ha carnevalizzato la realtà e, ora come ora, siamo tutti pagliacci pronti a far ridere gli altri, avere quei quindici secondi di fama e impressionare sconosciuti nella speranza di fare il botto con talenti che non abbiamo, nella migliore delle ipotesi, e di elemosinare attenzioni e spiccioli, nella peggiore.

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