Prima di scrivere questo articolo ci ho pensato non due, non tre ma almeno dieci volte, non solo perché mi sta a cuore il tema, ma anche perché mi rendo conto di parlare da una posizione, purtroppo, ancora privilegiata. Tuttavia, è proprio prendendo coscienza di cosa sono che ho deciso di parlarne per definire cosa potrei e vorrei essere. Quindi eccoci qui, a parlare di gender pay gap e disparità professionale.
È da poco passato l’otto di marzo, la Giornata internazionale dei diritti delle donne. Tra mimose e auguri di varia natura, molte pagine social non hanno mancato di ricordare che l’otto marzo è riconosciuta come una “festa” ma tale non è, o meglio, ci sono motivi per cui non ci si può ancora lasciare andare a celebrazioni. Le ragioni per cui molte donne hanno cercato di decostruire e ricostruire il significato di questa giornata sono da rintracciare ancora oggi nella lotta alle disparità, negli stereotipi di genere, nelle ingiustizie su cui aleggia un certo permissivismo. Tra queste, una delle più note è quella legata alla retribuzione. Si parla di gender pay gap in tutti casi in cui, a parità di mansioni, competenze, livello, ruolo e meriti, una donna sia retribuita meno di un uomo. Sì, a voler essere precisi, in realtà si parlerebbe di disparità retributiva anche nel caso in cui fosse un uomo a guadagnare meno di una donna ma, dati alla mano, il fenomeno, in Italia, si manifesta quasi il 100% delle volte a discapito del genere femminile.
Un assaggio di storia
Il gender pay gap però si origina a partire da un più generale gender gap professionale: non è solo questione di stipendi, ma soprattutto di possibilità di accesso a certe posizioni lavorative. Una grande fetta di posizioni gestionali è oggi ricoperta da uomini e questo perché, durante la seconda rivoluzione industriale, le donne sono entrate nel mondo del lavoro ritagliandosi uno spazio in posizioni per lo più commerciali. Questo perché non venivano considerate capaci di assumersi responsabilità manageriali. Anche il lavoro, in qualsiasi forma, per una donna doveva essere passeggero, l’obiettivo era un altro: prender marito ed essere madri. Solo nel 1866 alcune donne schiave lavandaie del Mississippi si ribellarono a queste forme di imposizioni formando i primi sindacati formali in cui si chiedevano salari paritari. Queste prime istanze di femminismo operaio furono poi portate avanti dalle suffraggette.
Ma in Italia? Alcuni dati importanti, nei rapporti UIL, li rintracciamo nella seconda metà del diciannovesimo secolo dove si registrano le prime battaglie per la condizione operaia femminile. Tra queste la lotta per gli orari condotta da Angelina Altobelli e la legge Carcano del 19 giugno 1902 con cui si è conquistata una forma embrionale del congedo di maternità.
La situazione attuale
Oggi in UE, il gap retributivo si è assottigliato ma si attesta ancora al 16%, motivo per cui è giusto ricordare che, allo stato attuale delle cose, dovrebbero passare, in media, altri 170 anni (nei Paesi sviluppati) perché una donna guadagni la stessa cifra che guadagna un uomo (dati prima della pandemia). In termini di parità generale, spostandoci su una prospettiva globale, gli anni ammonterebbero a 257 circa.
Partendo da questi numeri torniamo a una dimensione nazionale: nel 2019 37.000 donne si sono viste costrette a lasciare il proprio lavoro ancora per problemi di conciliazione figli-vita lavorativa. Questo significa che a costituire un grave handicap è ancora l’associazione donna = madre, non è solo il genere a creare un handicap ma anche la possibilità stessa di avere una famiglia. Nel 2017 il 71% delle donne senza figli, in un età compresa tra i 25 e i 49 anni, dichiara di avere un’occupazione, 52% nel caso in cui abbiano un figlio a carico.
L’Italia, il lavoro e la Costituzione
Per non andare incontro a critiche di esterofilia è giusto sottolineare che in Italia il gap salariale si attesta circa al 5%, ben al di sotto della media UE. Il vero problema dunque rimane il divario occupazionale, ecco perché non si può parlare di gender pay gap, senza parlare di gender gap in generale. Alle donne sono precluse molte possibilità di migliorare la loro carriera lavorativa, eppure i dati ci dicono che le donne con titolo di laurea o di dottorato non siano meno degli uomini, nemmeno nelle discipline scientifiche e tecnologiche.
Secondo un recente rapporto di Almalaurea, a cinque anni dalla laurea le donne occupate sono meno degli uomini e i contratti a tempo indeterminato sono offerti loro meno frequentemente. Questo è in buona parte spiegabile considerando le previsioni sulla potenziale scarsa produttività legate al fattore maternità, il quale non è risolvibile solo attraverso un congedo pagato di maternità. Anzi, quanto detto fin qui ci permette di affermare che il problema non è solo economico ma riguarda ancora il modo in cui la maternità viene culturalmente concepita, quel modo che poi genera situazioni di assurdo funambolismo tra cura domestica e lavoro oppure porta a lavori part-time non volontari.
L’articolo 37 della Costituzione afferma l’uguaglianza di diritti, in termini di lavoro, tra lavoratrice e lavoratore ma poi aggiunge un frammento che tende a definire la donna esclusivamente in funzione del suo essere madre:
le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione

Cosa siamo chiamati ad affrontare
Non possiamo tacere di fronte ad alcuni scenari che emergono ancora nel 2021, tra cui l’ingiustificata differenza: di possibilità di accesso al mondo de lavoro, di opportunità formative che poi si collegano alle promozioni, di mala distribuzione degli istituti retributivi accessori e nel considerare le mestruazioni come una causa, tra le altre, di assenteismo. A livello legislativo il nostro Paese presenta normative efficienti ma è necessario rompere le radici di tutte le differenze di genere disfunzionali che, se mantenute in vita, daranno sempre origine a processi a catena di disparità. Un esempio di cosa possiamo fare? Rifondare il concetto di genitorialità condivisa per poi, di conseguenza, redistribuire il congedo parentale in parti uguali.
Vorrei concludere con un ragionamento senza conflitti d’interesse: dalla promozione dell’occupazione femminile non sarebbero solo le donne a guadagnarci, ma l’intero Paese, in termini di sviluppo umano ma anche di capacità e quindi di competitività. Qualche numero? Oggi l’occupazione femminile italiana si attesta attorno al 49%, se la portassimo al 60%, secondo Banca d’Italia il PIL salirebbe del 7%. Per chiunque masticasse poca economia, sappiate che questa sarebbe una crescita gigantesca.
Vogliamo davvero aspettare altri 250 anni?