“No English?” – Cronache Georgiane

Georgia, febbraio 2019

Fuori Gori era tutto devastato, ma anche in città le facciate dei palazzi lungo Stalin Avenue portavano ancora i segni della guerra. Ogni palazzo esposto a quello che era stato il fronte era praticamente ancora crivellato. Su un edificio butterato vedo tracciati i confini della Georgia, compresi i territori persi, e la scritta in inglese e georgiano “Il prezzo dell’indipendenza”, con sopra la sagoma un bombardiere che come colpi sgancia proprio quelle cavità nel muro.

Entro in un locale per pranzare. Dentro non c’è nessuno, se non le proprietarie dalla classica fisionomia georgiana, capelli mossi fino alle spalle e naso aquilino. Sembra ci sia addirittura della foschia nella sala. È tutto buio. La radio in sottofondo spezza il silenzio ma accresce la desolazione, il fatto che io sia italiano però mette allegria alle signore, si sentono quasi onorate di avere uno straniero nel loro locale. Mangio dei bocconcini di carne e riparto. Vado verso il mercato poi. Nei mercati ci si rende sempre conto di non essere in Europa. L’ordine non è europeo, la pulizia non è europea, la merce e i prodotti non sono europei. Le montagne di tabacco sfuso non sono per niente europee, e neanche i cani randagi zoppi sono europei. È tutto decisamente molto più asiatico, nonostante questa non sia Asia e le cose non siano all’asiatica. Sono semplicemente a modo loro rispetto all’intero globo, alla caucasica.

Le maršrutki partono lì di fronte. Ne prendo una che dovrebbe portarmi a Uplistsikhe, a quanto c’è scritto dal cartello sul cruscotto. L’autista si sta mangiando, noncurante delle briciole, un panino con un pesce dentro, per terra c’è un torsolo di mela totalmente ossidato. Usciamo dalla città e dopo un quarto d’ora abbondante io e altri due passeggeri arriviamo a Uplistsikhe, che è però il villaggio e non il complesso monumentale verso il quale sono diretto. Chiedo all’autista, dice che siamo a fine corsa e che le cave che sto cercando sono a tre chilometri da fare per forza a piedi.

Il sole è allo zenit. Non che siano tanti tre chilometri, ma ho poco tempo. Spero di fare in tempo a tornare e visitare il museo di Stalin, se no dovrò farlo domattina. Spaesato seguo la strada. Davanti a me c’è un ragazzo che era salito sul mezzo poco fuori Gori. Gli chiedo in russo come arrivare. Gli chiedo se parla russo, negativo, provo con l’inglese, negativo, tedesco, spagnolo, francese, tutto negativo. Mi risponde in georgiano e mi fa segno di seguirlo. Attorno a noi ci sono solo case di campagna e vasti terreni non coltivati. Arriviamo a una casa, il ragazzo, poco più grande di me, entra nel cortile e urla in georgiano. Scende un signore e saliamo tutti e tre su una vecchia Nissan. Spero non mi sequestrino, ma il sesto senso non è all’erta e lo stomaco mi dice di stare tranquillo.

Proseguiamo per la landa desolata per pochi chilometri quando a un certo punto ci fermiamo a un’altra casa. Non è ancora il complesso questo. Il ragazzo scende a quel punto e avviene uno strano cambio di autista. Spero non mi stiano portando da qualche altra parte. Arrivato il nuovo autista, lo saluto in georgiano ma lo ringrazio in russo. “Gamarjoba, spasibo”, al che lui, con una voce disgustata e una faccia decisamente irritata, si volta verso di me e mi fa “Spasibo? No English?”. In quel momento ho avuto paura. Probabilmente era un georgiano che dieci anni prima aveva cercato di ammazzarli i russi, o questi avevano cercato di ammazzare lui, o comunque avevano devastato la zona circostante che si trovava ancora in condizioni pietose. In quel momento passo subito all’inglese. “Yes yes yes. I am from Italy!”. La situazione si scongela per fortuna, non oso chiedere della guerra anche se vorrei. Quella mattina avevo cercato di strappare qualche parola sulla guerra al proprietario dell’ostello. Purtroppo ho capito poco di quella conversazione, non ce l’aveva con i russi però a quanto pare non era un problema per lui parlare in russo. Ammirava Stalin e rimpiangeva l’URSS, un sovietico come tanti in pratica. Dopo il disguido attraversiamo un ponte intasato da una mandria di vacche e arriviamo al sito. Vengo addirittura accompagnato alla cassa, mi ordinano il biglietto, e poi se ne vanno senza chiedermi niente in cambio, ma augurandomi che Dio mi accompagni. Questa volta ringrazio e saluto in georgiano, poi proseguo all’esplorazione del monastero.

Vago per le varie grotte scavate dai monaci secoli fa. Man mano che scalo la collina il paesaggio si fa sempre più stupefacente, nonostante la valle sia celata da un leggero strato di nebbia. Dei fuochi di origine non chiara fanno innalzare delle colonne di fumo nell’aria. Ne aumenta il mistero e la bellezza. Dalla cima puntiamo anche all’Ossezia. E io sogno quella terra, mi chiedo come sia la vita lì, se sia davvero come vuole farci credere la nostra propaganda, una terra di cattivi, pericolosa, in cui si potrebbe esplodere da un momento all’altro o no, mi chiedo come vivano le persone, come sia la loro quotidianità. Soffia una leggera brezza e lì, guardando quel paesaggio vasto, a tratti arido e a tratti fertile, mi sento veramente felice. Mi sento felice perché mi sento libero, perché me la sto cavando. Mi sento libero perché sono in viaggio e sto conoscendo, sto imparando. In quel momento mi vengono in mente, seppur in tutt’altro contesto (sebbene l’alito della guerra anche qui sia ancora presente) i versi di Ungaretti:

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita.

Giuseppe Ungaretti

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