Un complotto

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Di complotti ne sono pieni il mondo e la Storia. Dall’assassinio di Giulio Cesare allo scherzo orchestrato dal trio malefico delle elementari, essi fanno parte dell’esperienza umana. Non si parla di complottismo o teorie del complotto, ma di episodi all’interno dei quali un gruppo ristretto di persone si allea al fine di ledere qualcuno, portare avanti una causa, scatenare una risata, spesso amara. Nel 2009, l’allora segretario di Stato americano Hillary Clinton è stato vittima di un piccolo ma significativo sabotaggio, che può essere utile come spunto per osservare gli Stati Uniti d’America sotto una luce un po’ diversa.

A Ginevra era stato organizzato un incontro tra il Ministro degli Affari Esteri russo Sergej Lavrov e, appunto, la Clinton. L’intento era quello di dare il via a ciò che sarebbe stato chiamato il “Russian reset”. Infatti, l’amministrazione Obama insediatasi da poco più di un mese aveva già manifestato, tramite il Vicepresidente Biden e il Segretario di Stato, la volontà di migliorare le relazioni bilaterali con la Russia – quindi di resettarle – per ricominciare da zero dimenticando il passato.

Al fine di celebrare questo momento era stato preparato un simpatico siparietto. Finita la conferenza stampa, la Clinton ha aperto una piccola scatola davanti ai fotografi, tirandone fuori un bottone rosso, e porgendolo al suo omologo. Sopra c’era scritta la parola “reset”, appunto, in inglese e in russo a caratteri latini. L’idea era quella di premerlo assieme, cosa che venne fatta, salvo che alla domanda se avessero scelto la parola giusta, Lavrov un po’ imbarazzato rispose che, in effetti, no. La parola russa sul bottone, infatti, non era perezagruzka, ossia reset, riavvio, ma peregruzka. La differenza sembrerebbe minima, se non fosse che il significato è molto diverso. Infatti, peregruzka si traduce letteralmente con overcharge, ossia sovraccarico. Peggioramento, per capirci.

Per provare a capire quel che è successo, è bene partire da noi e dal nostro modo di guardare agli Stati Uniti. Generalmente, quando si pensa a uno Stato estero ci si immagina un monolite che produce decisioni e azioni, e probabilmente questo vale ancor di più per gli USA, la cui massima espressione è il Presidente. Media di vario tipo e semplici chiacchiere da bar hanno infatti creato l’immagine che tutti abbiamo dell’uomo più potente del mondo. Il fatto che ogni volta che accade qualcosa si parla di “Biden che ha fatto questo”, o di “Trump che ha fatto quell’altro”, aiuta questa semplificazione.

Ma le cose non stanno così. Il Presidente ha poteri limitati, soprattutto in politica estera. Quel che interessa qui è il concetto che, oltre alla Casa Bianca, il grande animale che noi chiamiamo Stato possiede tante teste. E ce ne sono alcune che lo direzionano molto più di quanto non faccia l’Obama di turno nei suoi pochi anni di mandato. La testa che riporta al piccolo complotto da cui si sono prese le mosse è una delle più grandi, mostruose, ma anche affascinanti, ossia quella della burocrazia. In particolare, quella legata alla difesa, al Dipartimento di Stato e a tutti gli uffici (forze armate e Pentagono, CIA, ecc.) coinvolti nella sicurezza e nella politica estera americana.

Quando Trump parlava di deep state veniva preso per folle anche dai suoi più stretti collaboratori, e qui non si vuole correre lo stesso rischio. Ma le persone che vivono all’interno della macchina statale esistono. Esse lavorano, fanno carriera, coltivano conoscenze, hanno interessi economici, mantengono influenza sotto forma di consulenze una volta usciti dal settore pubblico e formano un proprio schema ideologico e di valori all’interno di un determinato status quo. Vanno dunque a formare “un apparato coerente che trascende le appartenenze politiche e prende (o influenza) decisioni al di sopra, al di là e alle spalle della legge”. Questo significa che nel mantenere questi interessi, queste relazioni e questi valori, i membri degli apparati perpetrano e trasmettono di fatto quello status quo, rendendolo reale. Ma non solo. Le carriere di questi analisti, burocrati e tecnici sono più lunghe dei vari mandati politici e questo non solo dona una continuità alle istituzioni, ma crea anche una sorta di monopolio del sapere. In tale situazione, infatti, i politici sono in soggezione rispetto agli apparati, perché questi hanno al loro interno capacità amministrative e conoscenze uniche e indispensabili, senza le quali tradurre in risultati effettivi una qualsiasi scelta politica sarebbe impossibile. Ed è proprio questo che si intende quando si parla di decisioni al di là della legge: della possibilità per un ufficio del Dipartimento di Stato di dare reale seguito o meno a una decisione del segretario di Stato (come Hillary Clinton), che in teoria quell’ufficio dovrebbe dirigerlo, dipendentemente da quali siano le convinzioni e gli interessi specifici delle persone coinvolte.

Solamente un’ultima veloce digressione prima di arrivare a Ginevra. Un tratto distintivo dell’ideologia interna agli apparati statunitensi è la necessità di individuare nella Russia un nemico. Tutti hanno bisogno di un nemico, perché solo così si può avere l’amico. Carl Schmitt ne fa l’essenza della politica e Umberto Eco aggiunge che il nemico deve avere anche delle caratteristiche di bruttezza e totale alterità. In questi termini, Mosca è e rimarrà per sempre il nemico per eccellenza per gli Stati Uniti, a prescindere dalla sua reale importanza o pericolosità (che pure non è poca, visto che rimane un soggetto capace, in potenza, di sfidare l’egemonia americana in Europa e quindi sul mondo). È un nemico utile, uno strumento di mobilitazione, costitutivo della politica estera nazionale. Cosa, fra l’altro, reciproca. A livello di identità è molto più utile della Cina, avversario infinitamente più pericoloso ed estremamente più costoso da affrontare.

Questo sentimento, però, non è scolpito su pietra. E non sempre pare così bislacca l’idea di fare pace con i russi per magari concentrarsi su altro, o per usarli contro nemici come la Cina. Per farla breve, questo modo di vedere è spesso appartenuto ai presidenti di turno, come anche è appartenuto a Obama. Durante la parentesi di Dmitrij Medvedev alla guida del Cremlino, lui e il suo staff avevano, infatti, coltivato il sogno di rivedere le relazioni con la Federazione russa e di collaborare su numerosi dossier. Ma non avevano fatto i conti con gli apparati e con le convinzioni che al loro interno vigevano e vigono.

Ecco, infine, che un piccolo complotto assume senso. Sono settimane che gli esponenti della nuova presidenza fanno dichiarazioni di apertura nei confronti della Russia. La volontà è chiara. Sono le primissime mosse dopo l’elezione, i primi cento giorni di mandato, il biglietto da visita alla Nazione. Si decide di fare un gesto piccolo ma simbolico per segnare un giorno, il 6 marzo 2009. Ci sarà la stampa e il consigliere diplomatico del nuovo Segretario di Stato Clinton vuole assolutamente essere sicuro. È a questo punto che si rivolge agli apparati, e in particolare ai linguisti del suo ministero. Ai tecnici che hanno la conoscenza della lingua necessaria perché tutto vada per il meglio.

E il pulsante viene preparato e messo nella sua piccola scatola.

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