«Non è poi così lontana Samarcanda»

“For lust of knowing what should not be known, we take the Golden Road to Samarkand.”

James Elroy Flecker

Stando al centro del Registan si ha l’impressione di trovarsi al centro del mondo, nel suo ombelico. Sarà che ci troviamo esattamente a metà fra gli estremi del nostro continente, di quello che per noi è il mondo. Ed è proprio in questo ombelico che sembra concentrarsi l’energia di interi secoli. Di sangue, di conquiste, di commerci, di seta, di scoperte, di invenzioni. Non ho mai sentito una tale concentrazione di forze, di gente che resiste ancora, di umanità autentica. E per le strade della Samarcanda vecchia le donne portano gli stessi vestiti delle loro trisavole e gli uomini le tjubetejke dei loro trisavoli, e i bambini giocano e corrono come se la tecnologia non fosse stata ancora inventata, con sassi, fango, palloni, biciclette.

Dopo un viaggio in treno di tredici ore passato a sorseggiare tè con due signore buddiste di Nukus, studiare Shakespeare per preparare l’esame di letteratura inglese e accettare il cibo che il vecchietto nel posto affianco mi offre direttamente con le mani (pane, cetrioli, pomodori, biscotti) come se il virus qui non fosse mai arrivato, mentre fuori dal finestrino scorre il deserto, all’una di notte arrivo finalmente a Samarcanda. Sono in Uzbekistan già da due settimane ormai, e sin dal mio arrivo in terra uzbeca non ho aspettato altro momento che questo. A dir la verità non sono due settimane, ma cinque anni che aspettavo questo momento. Tutti i miei compagni di viaggio dormono, vanno a Tashkent loro, non riesco a salutare e ringraziare nessuno. Mentre il treno rallenta ormai in stazione, visibile l’insegna al neon blu (di una tonalità che però non sembra appartenere al passato, come i neon, ma al futuro) con la scritta “SAMARQAND”, il mio battito inizia ad accelerare, il cuore batte fortissimo.

Realizzo solo ora, a due settimane dall’inizio del viaggio, di essere in Uzbekistan, a cinquemila chilometri da casa, e di aver finalmente raggiunto la leggendaria Samarcanda. Scendo dal treno e compro una pagnotta dal banchetto sulla pensilina, poi vado a cercare un taxi. Sono stanco, non ho molta voglia di trattare sul prezzo, ma dopo un paio di ribassi riesco ad accordare la corsa per una cifra ragionevole, quasi da locale. Spero che la guest house abbia ricevuto la mia prenotazione, non ne ho avuto conferma. Mentre attraversavamo il deserto l’affittacamere in cui mi sarei dovuto fermare per tutta la settimana ha disdetto la prenotazione, ma non essendoci campo ho ricevuto il messaggio solo una volta riavvicinatici ai centri urbani, verso le otto di sera. Ho dovuto cercare così un’altra sistemazione, che però appunto non ha risposto. Spero ci sia qualcuno ad aprirmi. In taxi attraversiamo la città e passiamo davanti al Registan avvolto dall’oscurità. È una strana sensazione percepirlo in tre dimensioni, sapere che ha tre dimensioni e non due, come lo avevo percepito attraverso uno schermo o delle pagine in questi anni.

Per le due sono a destinazione. Tra l’altro, a metà strada abbiamo raccolto un altro passeggero per la strada. Non mi è piaciuta questa dinamica ma è andato tutto bene. Pago e scendo. Sono davanti a un portone enorme. Busso. Non risponde nessuno. Non mi serve bussare una seconda volta per capire come andrà a finire, ma lo rifaccio comunque. Ancora nessuno. Passo mezz’ora a bussare. Per i vicoli della città vecchia, decisamente loschi, non c’è anima viva. Nonostante questo, sono tranquillo, il sesto senso non è all’erta. L’unica cosa che non mi piace è avere lo zaino gigante sulle spalle e lo zainetto davanti. Non sono per niente agile qualora dovesse succedere qualcosa, e soprattutto i miei bagagli è come se fungessero da segnaletica per eventuali malintenzionati, sono frecce luminose che puntano sulla mia persona e gridano “turista”.

Non aprirà mai nessuno qui, se non domattina, quindi decido di vedere un po’ cosa c’è in giro. La città vecchia è costellata di insegne di pensioni, ostelli, hotel, affittacamere. Busso a un paio, timorato, sono quasi le tre di notte ormai, ma neanche lì nessuno apre. Do un paio di morsi alla pagnotta che provvidenzialmente avevo comprato prima. E’ ancora calda. Quando il morale è vulnerabile è vitale non lasciare che lo stomaco rimanga vuoto e abbia la meglio sul cervello. Capito davanti a un hotel. Con il telefono vedo che è decisamente fuori budget, ma entro comunque. Lo standard del posto sembra occidentale, lo stile della struttura è persianeggiante. Il receptionist, uno slavo poco più grande di me, stava dormendo dietro al bancone. Si tira su. Gli spiego la situazione. Mi dice il prezzo della camera più economica, ma gli dico che non posso. E’ disposto anche a farmi uno sconticino, ma non posso proprio. Allora, per niente irritato dal fatto che non voglia restare lì, mi dice di aspettare. Aspetto. Tira su la cornetta del telefono e inizia a fare un giro di chiamate in uzbeco. Qualcuno arriverà fra poco. Mi fa accomodare nella hall nel frattempo.

Dopo un quarto d’ora arriva un uzbeco dalla classica fisionomia turcica con una tjubetejka in testa. Mi dice di seguirlo. Ringrazio il mio benefattore e lo saluto. L’uomo, Timur, abita esattamente dall’altra parte della strada. Anche lui ha un affittacamere. Attraversiamo una lussureggiante corte con una fontana in mezzo e mi accompagna in una stanza libera. Dentro c’è la moglie, svegliata apposta, una grossa donna nascosta sotto a un hijab rosa, che mi sta facendo il letto. C’è addirittura il bagno in camera, ma non c’è acqua. L’acqua c’è in cortile. Stanno facendo dei lavori alla stanza a quanto pare, motivo per cui domani mattina dovrò liberarla presto, ma non mi importa. Mi stendo sul letto, soffice come la neve fresca in confronto ai sedili del plackart, e penso che, dopo una notte simile a quelle georgiane, anche questa volta ce l’ho fatta, ho raggiunto Samarcanda. Penso che ormai «non è poi così lontana Samarcanda». Nonostante la stanchezza non riesco a dormire, sono elettrizzato, vorrei uscire a visitare la città subito.

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