Anche se era novembre stavamo raggiungendo la riviera del mar Nero, un posto soleggiato, con una selvaggia natura rigogliosa tinta di ogni sfumatura di verde. Invece, quella giornata era ghiacciata e maledettamente umida, il cielo era cupo e diluviava.
“La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi”
Ugo Foscolo
Il tropico non ce l’eravamo per niente immaginato così. Forse perché non eravamo effettivamente ai tropici. Ma nella nostra testa, anche se era novembre, stavamo raggiungendo la riviera del mar Nero, un posto soleggiato, con una selvaggia natura rigogliosa tinta di ogni sfumatura di verde, palme, giardini esotici e delfinari, ma anche tanto sangue, ormai rappreso, e ancora un po’ di pericolo (forse questa era una caratteristica intrinseca del tropico). Invece, quella giornata era ghiacciata e maledettamente umida, il cielo era cupo e diluviava. Dopo una notte in treno arriviamo in stazione per l’alba. Un’alba senza sole, non è un buon presagio. Come non mi sembrano di buon presagio tutti i negozi di bare che troviamo per la strada vagando per Zugdidi. Ce n’è uno ogni cinque negozi “normali” circa.
È prestissimo e non c’è ancora niente di aperto se non un supermercato. Entriamo, ci rifocilliamo un attimo, buttiamo giù un piano e ripartiamo. Seduti nel bar del supermercato grattiamo via dalle bottigliette d’acqua le etichette a caratteri georgiani, a quanto pare potrebbero non essere gradite in entrata dalle guardie di frontiera. Ci servono rubli, ma le banche sono tutte chiuse e quando apriranno sarà già troppo tardi per noi. Così raggiungiamo il mercato centrale. C’è già un gran trambusto. Chiediamo dove possiamo trovare ciò che cerchiamo. Una signora anziana che vende di tutto, da calcolatrici a sigarette, ci dice di aspettare, e ci porta circa settemila rubli, l’equivalente di un centinaio di euro. Le nostre banconote le piacciono. Le piacciamo anche noi, perché siamo italiani. Capiscono ciò che stiamo per fare, non ci biasimano, almeno per loro non è niente di immorale o folle. Noi invece ci sentiamo quasi in dovere di giustificarci, di scusarci, quasi l’essere curiosi e voler conoscere fosse una colpa. Troviamo un taxi all’uscita del mercato e contrattiamo il prezzo per farci portare al confine. Cerco di capire dal taxista cosa ne pensi della situazione, ma divaga, non risponde alle mie domande, e non vuole essere filmato. Ormai abbiamo lasciato Zugdidi e intorno a noi ci sono le prime tracce di quella che potrebbe essere stata la guerra, ma che potrebbe anche essere semplicemente la negligenza caucasica.
Viaggiavamo in taxi verso un confine che non esisteva. Una pioggia leggera e fastidiosa, solo come la pioggia leggera sa essere, un cielo grigio, strade devastate, intasate da mandrie, lungo i cui bordi giacevano i segni di quella che noi pensavamo essere la guerra. Prati aridi e tronchi secchi. Sullo sfondo le rupi a cui fu condannato Prometeo, in tasca un pacco di rubli che fino al confine non avevano alcun valore, carta straccia. Edifici fatiscenti e case abbandonate. I tetti cadono a pezzi. Una scuola semidistrutta emana ancora sia l’illusione sia la delusione del radioso avvenire, che però non sembra essere ancora giunto e, ormai, forse non giungerà più. Vetri sfondati, pareti crivellate, vecchi mosaici sbiaditi. Monumenti, memoriali, lapidi. Marmo. Marmi, ma non un’anima. E il colore del cemento a vista delle costruzioni scrostate che mima il cielo, o forse viceversa.
Arrivati al posto di blocco, alla frontiera c’è una mandria di vacche in mezzo alla strada. Paghiamo il tassista e lo guardiamo andare via. E’ una sensazione strana. Avrei voluto dirgli di rimanere perché non eravamo certi che saremmo riusciti a entrare. Parlo in inglese alla polizia. Loro invece sì che sembrano giudicare. Prendono i passaporti. Li mettono via e dicono di aspettare. Aspettiamo. Continua a piovere, ora cade molto più fitta rispetto a prima, e fa dannatamente freddo, ci saranno giusto un paio di gradi sopra lo zero perché dal cielo cade pioggia e non neve. Loro sono lì dentro, asciutti, al caldo, mangiano, ridono, scherzano, forse ci prendono anche in giro perché noi siamo già fradici. Chiedo loro se si sappia qualcosa o meno, dicono che bisogna aspettare ancora. Aspettano direttive “dal centro”, da Tbilisi a quanto pare.
Intanto i locali, provenienti da entrambe le parti, passano tranquillamente. Salutano le guardie, mostrano rapidamente il passaporto senza neanche consegnarlo e vanno via. Noi siamo lì. Noto che le macchine hanno una targa diversa. Scopriamo che più avanti c’è un minimarket ed entriamo per bere qualcosa, nello stesso momento arriva il furgone che porta le pensioni alle famiglie bloccate oltre il confine. Si crea una lunga coda e la gente, una volta presi i soldi, si mette da parte a contarli avidamente. Nel negozio c’è molta gente, tutti di Gal, gente o senza denti o con i denti d’oro. Non sembrano essere malvagi, come vengono spesso dipinti gli abcasi dalla propaganda georgiana e occidentale, anzi. Ci accolgono bene, fomentandosi come al solito quando viene fuori che siamo italiani. Anche le sigarette hanno la marca da bollo abcasa. Torniamo al gabbiotto. Bisogna aspettare ancora. Ci ignorano. Sono due ore che stiamo aspettando, così decidiamo di interrompere la missione, di rinunciare. Fossi stato da solo avrei aspettato ancora e ancora, che sono due ore di attesa per gli eredi della burocrazia sovietica? Ma non lo ero, e viaggiare in compagnia vuol dire anche questo. E così Robert Walton, tradito dal suo equipaggio, inverte la rotta tornando a Sud (in questo caso noi decidemmo di andare a Nord, verso la Svanezia).
In quei giorni la situazione al confine era estremamente tesa e volatile. Solo al nostro ritorno a casa, ormai in Italia, scoprimmo che qualche giorno prima della nostra impresa era avvenuta una sparatoria sul lungomare, cosicché interpretammo quella lunga e irritante attesa come un tentativo da parte delle guardie di frontiera, tanto odiate sul momento e apparentemente così scortesi, di farci desistere dall’impresa e tutelarci.