I progressi tecnologici degli anni ’40 portarono all’introduzione di materiali sintetici, creati dall’uomo. Il materiale sintetico per eccellenza, quello che oggi occupa il 60% della produzione mondiale di materiali per indumenti, è il poliestere.
Negli ultimi anni si sono fatti grandi passi avanti per rimuovere dalla nostra vita quotidiana la plastica monouso, come per esempio piatti, bicchieri o cannucce sostituiti dai loro equivalenti in carta o materiali compostabili. Nulla– o troppo poco – si è fatto invece nei confronti della seconda industria più inquinante al mondo: l’industria della moda, con particolare riferimento al mondo del fast fashion. Per fast fashion (che possiamo tradurre con “moda rapida”) si intende la produzione continua, da parte di aziende che lavorano nel campo dell’abbigliamento, di nuove collezioni a prezzi ridotti. Questo modello produttivo nasce negli anni ’80, ma è dal 2000 che è diventato preponderante. Prima, le case di moda producevano solo due collezioni all’anno: una per l’Autunno-Inverno, e una per la Primavera-Estate. In questo modo venivano venduti meno prodotti a un prezzo maggiore rispetto a quello a cui siamo abituati oggi, ma allo stesso tempo a una qualità superiore.
Fino agli anni ’40, le fibre usate per i capi di abbigliamento erano totalmente naturali. I progressi tecnologici di quegli anni portarono successivamente all’introduzione di materiali sintetici, creati dall’uomo. Il materiale sintetico per eccellenza, quello che oggi occupa il 60% della produzione mondiale di materiali per indumenti, è il poliestere.
Il poliestere altro non è che pura plastica. Il suo processo produttivo si basa su fonti non-rinnovabili: i combustibili fossili. Sì, proprio loro, quelli che stiamo cercando di limitare per arginare i danni del cambiamento climatico.
Oltre all’emissione di tonnellate di gas serra nell’atmosfera, ciò a cui nessuno aveva pensato nell’inventare il poliestere è che questo si degrada durante i lavaggi in lavatrice, con il conseguente distacco di centinaia di migliaia di microplastiche che finoscono disperse nell’ambiente – soprattutto in mare – attraverso i tubi di scarico delle nostre case. Con la recente scoperta di microplastiche nel sangue umano, a questo punto sarebbe il caso di cercare una soluzione definitiva.
I maggiori produttori di fast fashion sembrano non avere alcun interesse nella diminuzione del proprio impatto ambientale, anzi, sembra abbiano fatto amicizia con un altro fenomeno di cui ci siamo già occupati: il greenwashing. Sempre più spesso vediamo nuove collezioni con etichette verdi e bollate come “green”, che in realtà utilizzano come fonte primaria solo una minima percentuale di plastica riciclata. Al giorno d’oggi il 50% del fast fashion viene prodotto utilizzando plastica vergine, ossia il 50% in più di plastica di nuova formazione e non riciclata che viene messa in circolazione e che costituirà un ulteriore accumulo di questo materiale. Questo circolo vizioso non è inoltre destinato a calare; viene stimato che entro il 2030 il 75% dei tessuti sarà costituito da materiali sintetici.
Le alternative ci sono e una su tutte consiste principalmente nel leggere attentamente l’etichetta di un capo per poter scegliere consapevolmente il tessuto che si intende acquistare. È bene notare, però, che i tessuti misti come, per esempio, cotone e poliestere non sono una buona alternativa per quanto lo sembrino. Infatti è impossibile dividere i due materiali per poterli riciclare e questi capi finiscono quasi certamente per essere bruciati.
Un’altra soluzione sarebbe quella di cambiare la mentalità che si è creata negli ultimi decenni, per cui il consumatore sente un continuo bisogno di acquisto compulsivo e trova soddisfazione nel comprare ogni nuova collezione di abbigliamento non appena questa esce. Dovremmo tornare a riconoscere il valore di un capo di abbigliamento, e capire che il prezzo che paghiamo oggi per una magliettina di Zara, per esempio, è solo all’apparenza inferiore poiché quella maglietta avrà un breve ciclo di vita e si rovinerà subito. Spendendo di più per materiali composti da fibre naturali il cosiddetto cost per wear (il costo di un prodotto diviso le volte in cui lo si utilizza) sarà nettamente inferiore perché il prodotto durerà nel tempo e potrà essere indossato per decine di anni. Bisognerebbe tornare a puntare sulla qualità e non sulla quantità. I ragazzi giovani ultimamente sono sempre più attenti al riguardo, è aumentato l’acquisto di capi vintage o di seconda mano; in questo modo non si va a introdurre ulteriore materiale non riciclabile nell’ambiente e si evita che gli abiti in questione siano portati nelle enormi discariche a cielo aperto dei Paesi del Terzo mondo che spesso si vedono nei notiziari, dove spesso è facile individuare vestiti, ancora con l’etichetta del negozio, buttati senza essere mai stati indossati e comprati, dunque, solo per il desiderio di possederne sempre di più.